30.12.11

Natale: il conforto della genetica

Il mio Natale quest'anno è stato un Natale senza regali da fare né da ricevere. Un paio di pacchetti sotto l'albero li ho trovati, ed è stato molto carino perché non me li aspettavo, ma i patti erano non dare e non ricevere. Dato che lo stress legato ai regali da fare è tra le dieci cose che mi fanno piangere di più ogni anno (perché riesco a consumarmi i nervi a livelli esagerati), tutto sommato non mi è dispiaciuto saltare questo passaggio quest'anno e dare tregua alla mia psiche in tal senso. E poi ho fatto una torta, non è che non abbia contribuito affatto. È stato un Natale diverso, un Natale con la cena della vigilia tradizionale polacca e il tacchino con la cranberry sauce il giorno dopo, e tutto ciò mi sembrava terribilmente giusto. È stato un Natale alla cui messa di mezzanotte ho cantato in inglese dal banco, e anche questo mi è sembrato giusto. Un Natale senza il mio paesino che si scambia gli auguri sul sagrato della chiesa godendosi il calore della cioccolata calda e del vin brulé dopo la messa di mezzanotte, e questa cosa mi è mancata. Invece, mi sono ritorvata a fare le ore piccole con i miei parenti di qua bevendo il vino rosso che quasi quattro mesi fa ho portato dall'Italia. Seduti al tavolo della cucina. La cosa più irreale era che mi sembrava tutto assolutamente normale: io sono arrivata dal Canada, non ero tanto lontano, trovarmi lì con loro la notte di Natale mi sembrava una cosa assolutamente logica. Un momento, no, io non arrivo dal Canada, io sono arrivata da più lontano - io arrivo da più lontano - e questi miei parenti li sto vedendo per la seconda volta nella mia vita. Eppure ero lì con loro e la cosa mi sembrava naturale, come se arrivare dal Canada tutta sola e passare la notte di Natale in quella cucina del NJ fosse la cosa più normale del mondo. Senza pandoro. Senza i miei genitori. Un momento, è Natale? Davvero? Siamo già a Natale?

È stato un bel Natale, un Natale con l'eccitazione della mattina del 25 scritta negli occhi dei miei cuginetti, che spettacolo meraviglioso. Un Natale senza neve, ma con la brezza che tira dall'Oceano. Ma è stato un Natale anonimo. Un Natale passivo: il mio ruolo era quella di ospite e mi sento più a mio agio a fare gli onori di casa a Natale. Un Natale senza dubbio diverso.

Non l'ho sentito sbagliato, comunque. Ero in famiglia. La mia famiglia allargata e sparsa per il mondo. La mia famiglia di migranti. C'è chi mi chiede con che impulso io stia vagando tanto alla ricerca del mio posto nel mondo, credo che sia una cosa che noi abbiamo nel sangue. E non solo quello: ci guardavamo le mani, io e la più vecchia dei cugini che ho in America, e ce le abbiamo identiche. L'indice e il medio piegano verso l'anulare, in fuori. Una deviazione leggerissima, ma non abbastanza da non notarla. La stessa curvatura si trova sulle mani di mia nonna. Per quanto lontani e sparsi, siamo una famiglia. La curvatura delle nostre dita lo conferma. In quel dettaglio ho trovato tutto il conforto che mi ha fatto sentire al mio posto in questo Natale senza pandoro, senza vin brulé e soprattutto senza i miei genitori. Ero in famiglia, e questo è tutto quello che bisogna chiedere al Natale.

29.12.11

From A Dusty Bookshelf

Il titolo del post è un omaggio a Tuomas Holopainen, il contenuto è un'antologia di estratti di libri letti nel 2011 che ho ritenuto interessanti e che ho annotato nella mia agendina personale. La data si riferisce al giorno in cui ho annotato il passaggio, che nel 90% dei casi corrisponde al giorno in cui quel passaggio l'ho letto (il restante 10% è dovuto a mancanza di spazio nella pagina giusta). Alcuni passaggi sono dannatamente significativi.  In particolare una frase di Rushdie :)


"Like the swaggering pirates, let's make the most and best and worst of what we have. Give not one-third but everything. All-all-all. Keep nothing back ..."
Jean Rhys, Wide Sargasso Sea, 12 febbraio

"If I read poetry or novels I like then I want to go and live in the country the writer knows."
Nadine Gordimer, Burger's Daughter, 15 febbraio

"And, I grant, such mastery of the multiple gifts of cookery and language is rare indeed; yet I possess it."
Salman Rushdie, Midnight's Children, 7 maggio

"Everything has shape, if you look for it. There is no escape from form."
Salman Rushdie, Midnight's Children, 2 giugno

"L'altrove è uno specchio in negativo. Il viaggiatore riconosce il poco che è suo, scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà."
Italo Calvino, Le Città Invisibili, 20 ottobre

"In un'esistenza come la mia previsioni non se ne potrebbero fare: non so mai cosa mi può capitare nella prossima mezz'ora, non oso immaginarmi una vita tutta fatta di minime alternative ben circoscritte, su cui si possono fare scommesse: o così o così."
Italo Calvino, Se una notte d'inverno un viaggiatore, 21 novembre

"... and I told Sheridan I had to go. Let's meet here every five years to catch up on our lives, he said. Yeah, okay, I said, and waved goodbye."
Miriam Toews, A complicated kindness, 10 dicembre

23.12.11

Trasporti pubblici

La città in cui ho imparato a muovermi con i mezzi pubblici è stata Cracovia. Ero preadolescente o giù di lì ed è stato a Cracovia che ho preso il mio primo tram da sola. Quando viaggi da solo devi avere sempre tutto sotto controllo perché puoi fare affidamento solo su te stesso, anche se il viaggio dura appena poche fermate di tram. È stato in quell'occasione - quella corsa, e le successive - che sono "entrata" nel mondo del trasporto pubblico. Sono cresciuta in un paesino che fino a qualche anno fa vantava ben un semaforo (ora non c'è neanche più quello perché al suo posto hanno costruito una rotonda) e prima di allora non mi era mai capitato di dover imparare a usare i trasporti pubblici. Ma quell'estate mi si aprì un mondo. Quell'estate in cui le mie amiche davano i loro primi baci al vicino di ombrellone, io prendevo confidenza con il sistema dei trasporti pubblici di Cracovia.

Per anni quello fu l'unico con cui ebbi a che fare.

Quando, qualche anno dopo, la vita mi trasformò in una studentessa universitaria pendolare, entrai in contatto con un nuovo sistema di trasporto pubblico, quello di Torino. Non scorderò mai il mio primo giorno di università. (Pioveva, perché ovviamente a Torino deve sempre piovere.) Sapevo che dalla stazione avrei dovuto prendere il tram numero 15, così mi sono avviata verso la pensilina. Una rapida occhiata alla lista delle fermate successive mi conferma che sono nella direzione giusta e nel giro di pochi minuti il tram arriva e io salgo. Per i primi minuti della corsa non mi preoccupo particolarmente di dove sto andando perché non conosco granché la città, e non mi aspetto di riconoscere le vie. Dopo una decina di minuti, però, inizio a insospettirmi: non avrei dovuto metterci così tanto, eppure la mia fermata non è ancora arrivata. Chiedo a una persona di fianco a me se l'abbiamo già passata, la informo che devo andare all'università e non sono sicura di saper riconoscere la fermata giusta. La persona interpellata controbatte che l'università è dall'altra parte della città: devo scendere e prendere il tram che va nella direzione opposta. Possibile? Eppure avevo controllato le fermate successive.

Non ammetterò mai di aver sbagliato, perché io quel giorno non ho sbagliato. Se fossi stata a Cracovia, sarei andata nella direzione giusta. Prima di salire, infatti, avevo scorso la lista delle fermate dall'alto verso il basso, come avrei fatto a Cracovia. Nessuno mi aveva avvertito, però, che a Torino le fermate dei mezzi si leggono dal basso verso l'alto. Nella mia ingenuità non avevo preso in considerazione che il sistema torinese potesse differire da quello di Cracovia, e la mia poca esperienza coi mezzi pubblici di un'altra città non ha giocato a mio favore quando ho letto le fermate nel senso opposto.

Questa grande lezione di vita mi ha insegnato a fare sempre molta attenzione alle insidie disseminate nel sistema dei trasporti pubblici di un'altra città. E sono diventata molto sospettosa. Quando, nel 2009, mi sono trasferita a Oslo, l'ispezione della pensilina alla mia fermata della metropolitana e un'attenta lettura delle informazioni affisse è stata una delle prime cose che ho fatto. Mi è stata utile: ho subito imparato che la domenica non è giorno da prendere i mezzi pubblici nella capitale norvegese.

E poi a settembre di quest'anno mi sono trasferita a Toronto e ho riposto nel sistema dei trasporti di una metropoli nordamericana la mia più cieca fiducia. Grosso errore. Mi ci è voluta una persona del posto per spiegarmi esattamente in cosa consiste la politica dei transfer, ovvero se fai una corsa semplice puoi non prendere nessun biglietto cartaceo, ma se hai bisogno di proseguire la corsa cambiando mezzo allora devi munirti di transfer, ovvero questo fogliettino, per proseguire senza dover pagare una volta salito sul secondo mezzo. A complicare le cose c'è il fatto che il transfer va preso alla stazione o fermata di partenza e non a quella di cambio, quindi non bisogna dimenticarlo quando si inizia la prima corsa. Una follia. Ma non è tutto. Due settimane dopo il mio arrivo a Toronto ero d'accordo con un'amica a una certa fermata della metropolitana alle 9 del mattino. Di domenica. L'idea che i mezzi a Toronto la domenica potessero essere sfigati come a Oslo non mi ha neanche accarezzato la mente: una simile follia in una delle città più grandi del Nord America? Suvvia. Ecco che quindi, quando alle 8 e mezza di una domenica mattina l'ingresso della metropolitana rifiuta i miei gettoni, il mio stato d'animo è di assoluta incredulità. Riprovo: la macchinetta avrà la luna storta, ma ecco che il gettone viene di nuovo rigurgitato. Dopo una terza volta, oltre al gettone che torna indietro, si materializza un guardiano della metropolitana:
- Signorina, la metropolitana è chiusa. Ritorni alle 9.
- No, seriamente? Io devo essere all'altro capo della città tra mezz'ora!
- Allora esca in strada e prenda il night bus.
Night bus?? Alle 8 e mezza del mattino me lo chiamano night bus?
E fu così che all'appuntamento con la mia amica arrivai con un vergognosissimo ritardo, perché ovviamente il night bus ferma ogni duecento metri e ci mette il triplo del tempo rispetto alla metropolitana. A saperlo, sarei uscita di casa alle 7 e mezza per essere da lei alle 9. Ma ero a Toronto, dannazione, non avevo minimamente preso in considerazione che la metropolitana potesse essere chiusa prima delle 9 di domenica mattina! Mea culpa, non ho controllato gli orari come avrei dovuto fare. Ma è Toronto, non Oslo, accidenti!

Un paio di giorni fa ero a New York per incontrarmi con una persona. Abbiamo fissato un secondo appuntamento per un giorno di gennaio alle 7 del mattino. Non è una domenica, ma ormai io non mi fido più di nessuno:
- Mi ci vuole un po' per arrivare sulla 57th per le 7, sarà già aperta la metro?
- La metropolitana di New York è aperta 24 ore!
Musica per le mie orecchie. Dio benedica New York e la sua metropolitana che non chiude mai!

13.12.11

Ulteriori informazioni

Ciao, mi chiamo Eva e sono una fotografa.
Se fossi canadese, probabilmente mi presenterei così alla gente. Ma non sono canadese e di solito dopo il nome mi fermo. Di solito il mio nome è la prima informazione che fornisco e la persona a cui mi sto presentando se la deve far bastare almeno finché non si comincia una conversazione che potrebbe rendere utile o interessante il mio rivelare ulteriori informazioni su di me. In quei casi posso calare un'altra carta.
Ciao, mi chiamo Eva e sono una fotografa/ho una laurea in lingue/adoro la Scandinavia. Eccetera.
Forse la causa della mia reticenza a fornire troppe informazioni in un colpo solo è dovuta al mio sentirmi perennemente in bilico tra l'eccessiva modestia e il terrore del passo falso. Perché è sempre meglio dire una cosa in meno che dirne una fuori luogo. Questo perché so di essere piuttosto pessima a riparare una conversazione che ha preso una piega sbagliata, e quindi le informazioni accessorie le faccio arrivare quando ho capito in che acque sto navigando.
Perché mi comporto così? La mia vita "normale" ruota intorno ad alcuni contesti piuttosto fissi, ovvero: 1. il mio ambiente provinciale in cui tutti sanno chi sono, 2. il mio solito giro di amici, gente che sa molto bene chi sono e 3. la mia vita universitaria, in cui un profilo di base ci accomuna tutti. Sono davvero rare le occasioni in cui mi devo presentare a una persona completamente nuova e, quando mi capita di conoscere qualcuno, molto spesso c'è già qualche elemento che ha partecipato a definirmi o perché questa persona è amica di un amico, o perché è legata al mio ambiente universitario, o perché ci si trova in coda allo stesso concerto, e si finisce sempre per avere un contesto definito, un punto di partenza. "Ciao, mi chiamo Eva": che studio Lingue lo sai perché ci siamo incontrati in facoltà; che mi piacciono i Muse lo sai perché se no non sarei qui davanti ai cancelli come te; eccetera. Chiaro perché molto spesso il solo nome sia un'informazione più che sufficiente per cominciare, no?
Poi ci sono i casi in cui mi trovo decontestualizzata, tipo ora, che sono a Toronto. Qui nessuno sa niente di me. E ogni volta che rivelo solo il mio nome so che sto perdendo un'occasione per farmi conoscere davvero. Non succede sempre: dipende dai contesti. Faccio qualche esempio.

Ciao, mi chiamo Eva, sono laureata in Lingue e ho una passione per la Scandinavia.
Quando mi è stato presentato il console generale di Danimarca a Toronto non sono proprio riuscita a fargli bastare il mio nome. Ci ha presentati la direttrice dell'Istituto, quindi non sono stata nemmeno io a dire il mio nome. Stretta di mano, "Piacere", "Piacere mio". Alcuni secondi di silenzio e poi io parto all'attacco: "Lo sa che io ho scritto la mia tesi triennale su un'autrice danese?". (Segue lunga chiacchierata in cui gli spiego perché credo che Copenaghen sia la città più bella d'Europa e gli racconto che ho studiato a Oslo e che...)
Ecco, qui il rischio di dire una cosa fuori luogo era praticamente inesistente. E poi stiamo parlando della mia tesi e dei miei giri per la Scandinavia e io potrei parlarne per ore senza esaurire l'argomento. Facile.

Ciao, mi chiamo Eva e decoro torte.
Durante questo mio incredibile soggiorno canadese mi è capitata l'opportunità di fare da interprete a due cuochi italiani in visita a Toronto. Li ho seguiti come un'ombra per quattro giorni durante i quali hanno preparato una cena nel ristorante di una scuola di cucina, quindi la fase della preparazione dei cibi è stata anche di didattica agli allievi della scuola che hanno collaborato con loro. Il mio compito era tradurre. Anche in questo caso sono stata presentata da una terza persona, l'organizzatrice del progetto che li ha portati a Toronto, che mi ha presentata come la loro interprete. Destino ha voluto che la loro interprete fosse anche un'appassionata di cucina, e in particolare di pasticceria. Ora, io me ne sarei dovuta stare in un angolino a non interferire nel loro lavoro, intervenendo solo quando si fosse resa necessaria la mia mediazione linguistica. Ovviamente, mettermi per dodici ore consecutive in una cucina e pretendere che io me ne stia in un angolino è inimmaginabile e infatti, appena se n'è presentata l'occasione, ho voluto collaborare un po' anch'io. D'altronde, quando erano tutti impegnati a tagliare chili di carote o a farcire centinaia di ravioli non c'era bisogno di una traduttrice. Così, quando uno dei due chef si è messo a preparare le meringhe, gli ho chiesto se potevo finire io il lavoro. Avevo accennato ai due cuochi la mia passione per la pasticceria, e in particolare il bellissimo rapporto che ho con le sacche da pasticciere, ma questa informazione non dev'essere stata sufficiente per guadagnarmi la loro fiducia, perché mi è stata concessa la sacca solo per "fare le ultime". Eppure io avevo parlato sul serio quando avevo detto che questo è il mio hobby, e quando hanno visto come ho impugnato la sacca correttamente e ne ho fatto uscire una serie di meringhe tutte perfettamente identiche a quelle che aveva appena finito di fare uno di loro due, il commento è stato: "Ah, si vede che ci sai fare". Appunto.
Io l'avevo detto che con la sacca da pasticciere ci so fare. Ma il fatto che io fossi lì perchè sono un'interprete non aveva dato abbastanza credibilità alle mie parole. Eppure non si tratta di due informazioni incompatibili.

Ciao, mi chiamo Eva e sono una fotografa.
Ieri ho avuto la possibilità di infiltrarmi a un servizio fotografico realizzato per un magazine per cui lavora una mia nuova amica conosciuta qui a Toronto, e per cui ho anche collaborato con un paio di articoli. Sono andata ad assistere semplicemente perché morivo dalla curiosità di vedere un photoshoot da "esterna". Perché nelle vesti di fotografa ne ho già visto più di uno. Eppure quando mi è stato presentato il fotografo non ho avuto il coraggio di dirgli: "Sai, anch'io faccio foto". Perché nonostante avessi riconosciuto il suo modello di macchina vedendolo da dietro, mi sento sempre un po' troppo inadeguata per definirmi una vera fotografa. Sbaglio, forse. Ma se non ho il portfolio alla mano, o se non vengo vista all'opera, per qualche motivo su questo punto fatico a esprimere una certa credibilità. Perché tutti fanno foto. Ehi, ma io mi prendo piuttosto sul serio. C'è gente che ha pagato per avere delle mie foto! E non avrò un'attrezzatura da urlo, ma quando la Canon fa uscire qualcosa di nuovo io corro a leggere le recensioni in rete. E così, quando conosco un fotografo, quasi sempre mi limito a dirgli solo il mio nome. Poi però gli chiedo se posso dare un'occhiata alle foto che ha appena fatto, e quando mi dice di sì e prendo in mano la sua macchina, la accendo e mi metto a sfogliare le foto, il suo "Bisogna accenderla" rimane in sospeso perché vede che so esattamente dove andare a mettere le mani. "Ho una Canon anch'io".
Ciao, mi chiamo Eva e sono una fotografa.
Davvero.

19.11.11

Red Velvet cake

Io sono una persona che ama parlare di cibo. Mangiarlo mi rende felice, preparalo mi rende felice, con gli anni sono diventata perfino il tipo di persona che trova fare la spesa un passatempo divertente. Da un anno e mezzo circa ho vinto la paura del forno, sperimentato che nella lievitazione non c'è niente di trascendentale e scoperto che mi piace fare le torte. Dal giugno del 2010, per essere precisi. Prima di quella data, mi ero sempre tenuta rispettosamente fuori dal magico mondo della pasticceria. Poi ho voluto provarci. Il primo pan di Spagna è stato un vero e proprio fallimento: l'ho bruciato. Dal secondo ho imparato a regolarmi, dal quinto ho così preso dimestichezza da concedermi il lusso di modificare la ricetta per approdare a quella che uso ora e che mi dà sempre molte soddisfazioni.

Da circa un anno e mezzo, la mia vita è diventata, in questo senso, una vera e propria monotonia. Se un'amica compie gli anni il mio regalo è una torta, se mi invitano a cena da qualcuno io porto la torta, se qualcuno mi ospita per qualche giorno a casa propria io gli preparo una torta, torna la mia amica Clelia dal Giappone dopo il terremoto e io mi precipito a farle una torta... per non parlare del fatto che la mia festa di laurea (le mie due feste di laurea, ne ho fatte due, ma con lo stesso menù) non è stata altro che un muffin party nonché un'occasione per provare a usare il fondant e lanciarmi nella realizzazione di torte a due piani. Sfornare muffin a ripetizione era stato un ottimo metodo per scaricare la tensione pre e post discussione della tesi. Sfornare cupcake e decorarli è stato un ottimo passatempo nelle lunghe giornate che ho passato a Pisa ad annoiarmi. La mia vita nell'ultimo anno e mezzo è stata scandita da una serie di dolci e dolcetti sempre più elaborati e quella che era cominciata come un'idea alternativa di regalo per i miei genitori è presto diventata una passione, se non una vera e propria ossessione. La mia prima torta è stata il mio regalo per il venticinquesimo anniversario dei miei. Che mi avevano proibito di far loro alcun regalo, perché tanto io non ho soldi, e non volevano che usassi i loro per un regalo. Bene, complice il fatto che 1) fossi a casa da sola per due giorni e 2) stessi scrivendo la tesi e avessi un disperato bisogno di distrarmi con qualcosa, mi venne la brillante idea di fare una torta per i miei. Sarebbe stato un regalo low cost. E ci avrei messo dentro tutto il mio amore.
Così me ne sono andata su cookaround, ho cercato una ricetta per fare il pan di Spagna, due ricette per le creme, e dopo qualche pasticcio ho preparato una torta per i miei genitori. E ci ho preso maledettamente gusto. Così tanto che un anno (e parecchia esperienza) dopo, la torta per il ventiseiesimo anniversario dei miei è stata una vera e propria wedding cake di tre piani con la crema ai lamponi che ho portato dalla Toscana, decorata con la buttercream al cioccolato a mo' di cestino e traboccante fiori e foglie di buttercream rosa e verde. Quanto si impara in un anno!

Ora sono in Canada, per il mio tirocinio all'Istituto, giunto ormai al suo terzo, e ultimo, mese. Coincidenza ha voluto che nel mio ufficio ben cinque persone, incluse io e la mia collega intern, siano nate a ottobre. Cinque occasioni (pretesti) per fare una torta che non mi sono certo lasciata sfuggire. Mi sono sentita piuttosto libera di sperimentare e proporre le torte che volevo, ovviamente cercando di assecondare i gusti del festeggiato di turno, ma in un caso ho avuto una vera e propria richiesta: un collega mi ha chiesto di preparargli la Red Velvet.

La Red Velvet è una torta tradizionale nordamericana. Si dice che la ricetta sia stata inventata in un hotel statunitense negli anni '50, ma pare che venisse servita anche in Canada tra gli anni '40 e '50. Indipendentemente da chi si sia inventato la ricetta, una cosa è certa: sebbene si tratti di un'invenzione piuttosto recente, la Red Velvet è diventata subito popolarissima. Ciò che la caratterizza è il colore rosso dell'impasto, che contrasta con la crema, tradizionalmente buttercream o cream cheese icing, rigorosamente bianca. A dare il colore, nella ricetta originale, era il succo delle barbabietole, un colorante naturale, e la reazione del cacao con l'aceto utilizzato insieme al bicarbonato. Scettica e terrorizzata all'idea di usare l'aceto nella mia torta, ho cercato una ricetta che prevedesse l'uso del normale lievito per dolci. Non volendo, però, usare il colorante artificale, per mantenermi il più possibile vicina alla ricetta originale, ho chiesto al collega che mi aveva commissionato la torta di procurarmi il succo di barbabietola. Una volta trovati gli ingredienti e una ricetta che mi sembrava sensata, mi sono imbarcata nell'esperienza Red Velvet.

La ricetta che ho provato è quella di SeriousCakes, utente di Youtube dai cui tutorial ho imparato moltissime tecniche di decorazione. Poiché considero questa donna una specie di mentore, mi sono fidata ciecamente della sua ricetta e l'ho seguita fedelmente, sostituendo soltanto il colorante con il succo di barbabietola. Ero piuttosto inorridita dalla quantità di shortening richiesta dalla ricetta, ma mi sono limitata a seguire le indicazioni senza farmi troppi problemi: sto facendo una cosa nuova che prevede ingredienti diversi da quelli a cui sono abituata. Bene. Rispettiamo le tradizioni culinarie di una cultura diversa dalla mia. Giunta alla fine, inforno il bell'impasto dal colore porpora e attendo paziente. I problemi si presentano quando la mia Red Velvet trasgredisce e non rispetta i tempi di cottura della ricetta. Do la colpa al forno, e le concedo di prendersi tutto il tempo di cui ha bisogno. La torta, però, non ne vuole sapere di cuocere e quando, dopo averle concesso il triplo del tempo previsto dalla ricetta, la tiro fuori dal forno, mi attende una grossa delusione: la torta non è cotta uniformemente e il centro è orribilmente unto e umido. Ma soprattutto non è rossa ma marroncina!

Non fallivo una torta così vergognosamente dai miei esordi con la prima torta di anniversario. Che cosa è andato storto? Una rapida ricerca in rete mi insegna che la barbabietola da sola non basta a colorare l'impasto: è una questione di interazione tra l'acidità e l'alcalinità degli ingredienti e a far diventare rossa la Red Velvet originale era principalmente la reazione tra l'aceto e il cacao che si usava una volta. Ok, passi la questione del colore: perché la torta non è cotta? Sui bordi era tutto sommato accettabile, ma il centro era da buttare. Davvero troppo unta e pesante per lievitare correttamente alla temperatura della ricetta. C'era qualcosa che non andava. Il compleanno del mio collega sarebbe stato il giorno dopo. Avevo detto Red Velvet, e Red Velvet sarebbe stata. Lavo la teglia, mi stappo una seconda birra e cerco una ricetta alternativa e più bilanciata. Niente più shortening: ora giochiamo con le mie regole. E facciamo la Red Velvet con la margarina.

Approdo a una ricetta che mi pare più sensata. Il procedimento è lo stesso che ho visto fare dalla mia istruttrice (ora un po' meno) preferita e da altre protagoniste di videoricette che avevo guardato nella fase teorica. Cambiano solo le proporzioni degli ingredienti e quel poco di esperienza che mi sono fatta in un anno e mezzo mi dice che stavolta va. Stavolta va.

Ecco la ricetta:

Preheat oven 350°F.


1/4 cup butter
1 cup sugar
1 egg
3 tbs cocoa
4 tbs food colouring (& beet juice)
1 tbs vanilla
1/2 buttermilk
1 cup + 2 tbs flour
1/2 tbs baking powder

Il procedimento è il seguente: setacciare e mischiare la farina e il lievito. In un'altra scodella amalgamare il colorante (e il succo di barbabietola. Ho usato entrambi: volevo a tutti i costi che l'ingrediente procuratomi dal festeggiato fosse presente nella sua torta, ma poiché la barbabietola da sola non bastava a colorare, ho anche aggiunto del colorante rosso liquido, a occhio) insieme al cacao. In una terza scodella, sbattere lo zucchero e la margarina, a cui vanno poi aggiunti la vaniglia e l'uovo. A questo composto si andrà ad aggiungere, sempre lavorando di mixer, la farina (mista al lievito) e il latticello, un terzo alla volta, alternandoli: 1/3 della farina, 1/3 del latticello, e così via, finché non si è amalgamato il tutto. Infine, sempre sbattendo, si unisce la parte colorante (il colorante e il cacao). Fatto questo, si inforna per 35-40 minuti a 350°F.
Questa ricetta funziona. E' perfetta per una tortina di 15 cm di diametro o per 12 cupcake.

Una volta constatato di aver superato la prova, ho farcito e decorato la mia tortina con una crema a base di cream cheese, mascarpone e panna. E Red Velvet fu.

1.11.11

Happy Halloween!


Perché perdersi a scavare la zucca se al primo affondo del coltello era già perfetta per l'occasione? Una goccia di sangue finto et voilà: la mia prima zucca al mio primo Halloween!

24.10.11

L'autunno canadese

Ho passato il weekend in giro per parchi, sia in città che fuori, a caccia di foglie.

18.10.11

Espatriati passati e presenti

Su La Repubblica di oggi si parlava di (quelli come) me (a Londra, però):

Nelle università, nei luoghi di lavoro, nei caffè della metropoli sul Tamigi, questa generazione di espatriati tra i venti e i trent'anni, che va e viene per l'Europa con i voli a basso costo della Ryan Air, preferiscono avere un iPad che un'automobile e vive il nomadismo come un'espressione di libertà anziché come un limite, sta costruendo la società del futuro (...)
(Enrico Franceschini, La Repubblica del 17.10.2011, p. 27)

Estrapolo questa frase perché la sento molto mia, anche se mi sono ritrovata anche in diversi altri passaggi di questo articolo, intitolato L'Europa col doppio passaporto. Un articolo (anche) sui nuovi italiani, i figli degli immigrati e i figli delle coppie miste. Io appartengo alla generazione precedente, quando i bambini come me erano una rarità nelle scuole di provincia, e anche a livello nazionale costituivano una percentuale davvero cospicua. Io appartengo alla generazione precedente e ora, tra i venti e i trent'anni, come tanti altri miei coetanei non percepisco nemmeno più i confini interni all'Europa e ogni volta che scendo da un aereo Ryanair mi sento in un certo senso un po' a casa. E condivido pienamente l'idea dell'autore di questo articolo, cioè che il "nomadismo" che caratterizza la mia generazione sia un'espressione di libertà. È starsene relegati al proprio paesino di provincia a rappresentare un limite per me.

Stasera all'Istituto abbiamo proiettato Saturnia, un documentario sugli immigrati italiani in Canada arrivati a bordo dell'omonima nave. Una felice coincidenza aver letto quest'articolo appena poche ore prima. Appartengo a una famiglia che ha vissuto l'emigrazione sia nel ramo paterno che in quello materno, e sono sempre stata affascinata dalle storie di migranti. Io sono un'assidua low cost flyer e come tale ammiro moltissimo le persone che lasciavano tutto per imbarcarsi su una nave che dopo giorni e giorni le avrebbe portate molto lontano. Per la mia generazione le distanze quasi non esistono più. Per chi, come me, addirittura si appisola in aereo, a volte manca perfino il momento in cui si realizza che si sta attraversando una grande distanza, si sta saltando in un'altra cultura, addirittura in un altro fuso orario. Quando volo low cost per l'Europa, mi sveglio all'atterraggio in un Paese più o meno simile al mio e mi affido a quel grandissimo strumento che è la lingua inglese per comunicare. Potrei essere a un capo o a un altro dell'Europa e quasi non accorgermene, questo è il mondo per la mia generazione. E poi sento storie come quelle raccontate in Saturnia e vedo quanto sono cambiate le cose. Come sembrava enorme la distanza tra l'Italia e il Canada sessant'anni fa. Come sembrava straniero un Paese di cui non si conosceva la lingua. Come era estremo il lasciarsi tutto alle spalle, il lasciarsi tutti alle spalle, perché mantenersi in contatto era un'impresa difficilissima. Nell'era di Skype e della fotografia digitale è quasi difficile farsi cogliere dalla nostalgia. Viaggiare, fermarsi per un certo periodo in un altro posto, espatriare, per la mia generazione è quasi facile. Questa consapevolezza mi fa sentire grata per essere una figlia dei miei tempi.

17.10.11

Da che pulpito

Nel più immediato vicinato nel quartiere dove sto abitando ora si trovano soprattutto confraternite universitarie e chiese. Una combinazione interessante. Ma mentre non ho ancora avuto il coraggio di imbucarmi a una festa universitaria, oggi mi sono imbucata a messa nella chiesa protestante che c'è qui all'angolo. In generale, mi piace imbucarmi nelle chiese, anche se ho sempre il vago timore di farmi notare come quella fuori posto quando entro nella chiesa di un credo diverso dal mio. Quando ero in Norvegia sono entrata una domenica a messa in una chiesa luterana, era il giorno nazionale dei Sami e per puro caso avevo beccato la messa bilingue. Mi rincresce molto non averci capito nulla, ma avevo trovato l'esperienza molto interessante. Oggi a mio favore giocavano ben due fattori: nessuna barriera linguistica e lo status speciale della messa di oggi. Ospite d'onore e incaricata al sermone di oggi, infatti, era Margaret Atwood, e per questo l'evento era aperto a tutti.

Sono arrivata con un po' di anticipo per assicurarmi un posto a sedere e sono finita nel banco vicino a una adorabile signora che ha subito iniziato a fare conversazione con me. Un'appassionata di letteratura e di viaggi, che il prossimo anno andrà, guarda un po', a Roma e Firenze. Adoro quando le persone che mi capita di incontrare in modo assolutamente casuale si rivelano compatibili con me! Dopo un po' arriva una sua amica, che si siede di fianco a me, dall'altra parte. Mi presento anche a lei, le spiego cosa ci faccio qui a Toronto, le solite battute di rito fino alla conversazione più spicciola, cioè lei che mi chiede:
- Dopo la messa quali sono i tuoi progetti per il resto della giornata?
E io rispondo:
- Devo assolutamente fare una torta, domani è il compleanno di una collega e voglio preparare una torta da portare in ufficio.
Piccola premessa: prima mi ero intrattenuta a conversare di letteratura e viaggi con l'altra signora, e questa sembrava partecipare poco. Evidentemente non tutte le persone che la vita ci fa incontrare a caso sono compatibili. Ma a questa mia risposta le si illuminano gli occhi:
- Oh! Questo sì che è parlare!
Mi sbagliavo. C'è compatibilità anche con lei.
Ma guardatemi: seduta nel banco di una chiesa protestante a parlare di torte con due sessantenni. Mai mi ero sentita tanto compatibile anche con la desperate housewife Bree!

La messa  è durata tanto, perché era animata da danze e musica. Ho apprezzato moltissimo ogni singolo intervento musicale, soprattutto quelli eseguiti ad hoc per l'occasione, composti dalla Atwood stessa. Ho avuto anche il piacere di ascoltare una versione in musica che il coro ha eseguito della poesia The Tyger di Blake (sentirla in un contesto religioso mi ha fatto assaporare appieno quello che un componimento simile aveva significato per il suo autore. Messa in musica e per coro polifonico non ha fatto che esaltarne la bellezza. Posso dire di essermela oggi goduta nella sua veste migliore, questa poesia). Ma il vero punto di forza della messa, neanche a dirlo, è stato l'intervento della pluripremiata (e anche così è riduttivo) scrittrice. Salita al pulpito perché incaricata lei, quest'anno, a parlare in occasione della Craddock Lecture promossa da questa chiesa. Ha parlato della sua vita, dell'importanza di conoscere la Bibbia quando si studia la letteratura inglese, non si è risparmiata un riferimento alla questione delle biblioteche di Toronto (a rischio tagli per mano del nuovo, poco amato sindaco. La Atwood è diventata la paladina nella guerra ai tagli sulle biblioteche). A fine messa si è anche fermata per rispondere alle domande del pubblico ed è stato durante le domande che una sua frase mi ha colpito più di tutte le altre. Sosteneva quanto sia illimitato il potenziale artistico di un bambino, creatura in grado di imparare tutto al primo colpo, esprimersi con totale libertà nel disegno, nel canto, nella danza, ricettivo al massimo nelle lingue straniere. Fino a quel momento, nella vita, in cui si smette. Alla domanda quando ha deciso che sarebbe diventata un'artista lei ha risposto: "Non è che un giorno ho deciso che sarei diventata un'artista. Semplicemente non ho mai smesso di esserlo". Chapeau. Una lezione da conservare nel cuore.

15.10.11

About a turkey

Ci avevo visto giusto quando avevo previsto che sarei stata poco dietro a questo blog. Devo ammettere che è davvero difficile aggiornarlo quando si lavora full time e spesso anche la sera. Per fortuna questa settimana appena trascorsa è stata abbastanza leggera ed è iniziata di martedì. Perché lunedì 10 qui in Canada era Thanksgiving. Per mia somma gioia ho ricevuto un invito a pranzo e così ho avuto la possibilità di vivere appieno l'esperienza del Giorno del Ringraziamento. Ho potuto assaggiare il tacchino ripieno, una bestiaccia di quasi sette chili che è stata nel forno per quattro ore, guarnito con patate e cranberry sauce. Ero a casa di un collega, sia lui che la moglie sono italiani e, quindi, per quanto il pranzo sia stato tradizionale canadese, a fine pasto è prevalsa l'italianità, che si è tradotta nel caffè della moka e nel tiramisù. Il mio contributo in cambio dell'invito ha riportato il momento del dessert a una dimensione più nordamericana perché ho avuto il buon gusto di presentarmi con un cestino (giuro! In quest'appartamento ne abbiamo diversi!) di cupcake decorati con dei deliziosi fiorellini, e non esagero se dico che questa volta ho davvero superato me stessa:


Uno dei commensali, da bravo pugliese, ha proposto di innaffiare il pan di Spagna dei miei cupcake con il San Marzano Borsci e devo ammettere che ha avuto un'idea davvero felice (e mi ha aperto un mondo).
La giornata del Ringraziamento è stata forse una delle più belle che ho trascorso da quando sono all'Istituto. Mi sono sentita in famiglia, sensazione perfetta per una simile ricorrenza. Per quanto io sia una persona abbastanza indipendente che sa cavarsela molto bene fuori da casa e non è solita avere grossi attacchi di nostalgia (a parte quella per le mie montagne, da cui non sono mai riuscita a guarire), il dividere la tavola con una famiglia mi ha fatto stare bene. Era tutto nelle sensazioni che mi ha dato quell'atmosfera. E il pranzo a base di tacchino è stato un'esperienza da provare!

E così il tacchino del Canadian Thanksgiving va a unirsi alla serie di festività straniere che ho vissuto all'estero, insieme ai fuochi d'artificio del 4 luglio su una spiaggia del New Jersey, alla parata dei bambini su Karl Johans gate il 17 maggio a Oslo, ai bagarini in piazza a Malaga che vendono i biglietti per l'ultima corrida della stagione il 12 ottobre e al profumo di zenzero che pervade le strade olandesi a novembre. Quanto mi sembrano sterili i miei studi sulle culture straniere finché non vedo tutte queste cose con i miei occhi! Le feste tradizionali sono preziosi specchi della cultura di un popolo. Sto aspettando con ansia l'altro grande appuntamento dell'autunno: Halloween. Quello vero, alla faccia della stupidata che cerchiamo di emulare per moda in Italia.

C'è un'altra cosa di cui voglio parlare, ed è una canzone che mi ha invaso il cervello da ieri sera. Si è insinuata nella mia testa, si è appena assopita durante la notte e oggi mi ha accompagnata in loop per tutto il giorno. L'ho sentita per la prima volta nella scena finale del quarto episodio di Revenge, serie TV che ho iniziato a seguire da pochissimo. Affascinata dalla tremenda malinconia di quella voce e di quel piano, ho chiesto a Google chi ne fosse l'autrice e in pochi minuti sono approdata su Youtube al video di questa canzone bellissima:


Agnes Obel, come mi ha insegnato Wikipedia, è una pianista e cantante danese. Per quanto possa sembrare banale quello che sto per dire, la sua musica sembra davvero il canto di una sirena venuta da Nord. Una scoperta affascinante, credo di aver trovato il disco perfetto per accompagnare l'autunno che si trasforma in inverno. C'è una malinconia di fondo nella sua musica, in cui mi piace perdermi e ritrovarmi. È una musica che mi ispira freddo, grigiore, buio. Luci artificiali, colletti dei cappotti tirati su. Alberi spogli, strade bagnate. Persone che vagano in solitudine per le strade di una città. È la musica che mi piace ascoltare quando anch'io vago in solitudine per le strade di una città invernale, con le sue strade bagnate e le giornate sempre più corte. Col colletto del cappotto tirato su. Credo che con Agnes Obel condividerò diversi momenti quest'inverno.

9.10.11

From Canada with... a cup of tea

Mettiamo le cose in chiaro da subito: non garantisco quanta fortuna potrà avere questo blog. L'ho aperto perché mi sembrava la cosa giusta da fare, anche se crescendo (invecchiando, sigh) mi sono sempre più allontanata dall'idea che sarei potuta essere una blogger. Per essere una blogger mancata, tanto vale non esserlo proprio. Il fatto è che, come chi mi conosce un po' bene sa, sono sempre stata attratta dai diari. La vita messa su carta mi affascina. Chi mi conosce un po' bene e da un po' di tempo sa anche che ruolo di spicco hanno avuto i diari al mio esame di maturità. Da brava figlia del digitale quale io mi ritengo, il passaggio dalla carta allo schermo è stato naturale, e per anni ho tenuto un archivio digitale delle mie annotazioni, prima privati e segreti documenti di Word e poi un blog, poi un altro, poi un altro. Da quando il mio tenere un diario è diventata un'esperienza digitale, però, ho perso il senso della continuità. E non mi sono mai trattenuta troppo a lungo su un blog. In questo sono rimasta molto old school: finito un quaderno, se ne riempie un altro. Finito un capitolo della mia vita, nell'era dei blog io tendevo a migrare su un'altra piattaforma. Solo Google mi saprebbe dire se i miei vecchi blog esistono ancora, ma non mi interessa granché scoprirlo. Il penultimo, il predecessore di questo, l'avevo aperto appositamente per il mio erasmus in Norvegia. Non l'ho aggiornato tanto quanto avrei voluto, e ne vado fiera: non sono certo stata sei mesi in un Paese bellissimo per starmene rintanata nella mia cameretta a scrivere un blog! (sorvoliamo sul fatto che io abbia però passato il primo mese rintanata nella mia camera in una condizione di semi-letargo. Ma dormivo: non potevo aggiornare il blog dormendo!) Mi fa piacere tornare a leggerlo - anche se adesso, dopo un master in traduzione editoriale, ci sono cose scritte lì sopra che non posso più vedere (ho dichiarato guerra alle cacofonie e agli avverbi in -mente. Sono cose che capitano) - soprattutto perché quei pochi ma buoni post che mi sono decisa a scrivere sono brillanti annotazioni del mio incontro con le altre culture con cui mi sono trovata a convivere durante i sei mesi norvegesi. Un incontro che, adoro sottolinearlo, è stato la più grande lezione che l'erasmus mi potesse lasciare. Quel blog è stato il depositario di questo genere di annotazioni. Alla vigilia della mia partenza per il Nord America, mi è sembrato doveroso poter disporre di nuovo di uno spazio per raccogliere simili tesori.

Una volta appurato che non sarei mai diventata veramente una blogger, ho lasciato che tutto quello che avevo da esprimere convogliasse nella fotografia. Quello è un ambito in cui posso constatare con enorme orgoglio una vera crescita personale. Siti come flickr e, prima, deviantArt, sono stati per me tanto importanti quanto i miei vecchi quaderni, i miei diari. Lo vedo soprattutto nei ritratti che ho fatto negli ultimi anni: c'è una buona componente di me in quelle foto, anche se le facce, i corpi sono di qualcun altro. Il modello (la modella, sono quasi sempre femmine i miei modelli) ci mette la faccia, ma io sono in grado di riconoscere anche una buona parte di me in quelle foto. Anche quelle sono un diario, a modo loro.

Non tutto può essere documentato con una macchina fotografica, però. Ed è stato in quei casi che un blog, soprattutto quello dell'erasmus, si è rivelato utile: mi ha permesso di fissare, a parole però, dei momenti. Non sarei potuta partire per il Canada senza la sicurezza di avere a disposizione uno spazio in cui immagazzinare questo genere di informazioni. Sono in Canada da più di un mese e non ho ancora avuto la necessità di venire a inaugurare questo blog - questo nuovo capitolo della mia vita, questo nuovo quaderno - ma era tutto predisposto e in attesa, nel caso mi si fosse presentata la necessità di venire a scriverci qualcosa. Un po' come i calzini di lana: li ho messi in valigia, in attesa del freddo. Ora sono in uno scatolone nel mio armadio qui a Toronto, insieme ai maglioni di lana e al resto della biancheria invernale, e aspettano solo il loro momento. Per questo blog, invece, il momento è arrivato adesso.

Non sento la necessità di stare a spiegare chi io sia e cosa ci faccia qui a Toronto. Il blog è online per il gusto di tenerlo accessibile anche al curiosone di passaggio (benvenuto!), ma se il curiosone di passaggio vorrà avere più informazioni su di me non le troverà scritte qui. Si tratta pur sempre di un mio diario, e io non ho certo bisogno di presentarmi a me stessa o ai miei cari (a cui prima o poi giungerà voce di questi post). Poco più sopra, i link ai miei profili fotografici e al blog dell'erasmus non li ho messi per niente: ci penseranno loro a fornire al curiosone di passaggio, ormai diventato un amico se ha letto fino a qui, tutte le informazioni che sta cercando sull'autrice di questo blog.

Perché oggi. Oggi mi sono incontrata con un ex compagno di corso di Oslo (cercavate la continuità?). Ne ho due, qui in Canada (fortunatamente entrambi qui in Ontario, e a due ore di macchina l'uno dall'altro, quindi "vicini"). Con una mi sono già vista diverse volte dal mio arrivo, con l'altro mi sono vista per la prima volta oggi. Toronto è la città più multietnica del pianeta, mi è stato detto, e in generale in Canada nessuno è propriamente del tutto "canadese", a parte i nativi. La storia di chiunque, qui, ad un certo punto nel passato, è una storia di migrazione. Nel caso della storia del mio amico, la migrazione è stata dalla Polonia. La cosa curiosa è che lui è l'unica persona di origini polacche che io conosca con cui ho sempre e solo parlato in inglese. Essendo cresciuto qui in Canada, è l'inglese la sua prima lingua, quella con cui si sente più a suo agio. E in inglese abbiamo sempre comunicato. C'è stato un episodio oggi, però, che ha tradito le origini polacche che abbiamo entrambi, ed è stato questo episodio a farmi sentire il bisogno di inaugurare questo blog. Un episodio che entra di diritto nella mia personalissima collezione di incontri culturali che ho vissuto e assaporato.

Le giornate di ottobre a Toronto sanno regalare delle piacevoli sorprese. Mattinate gelide che lasciano il posto a pomeriggi meravigliosamente soleggiati, in cui il cielo azzurro e terso è lo sfondo perfetto per gli alberi che stanno cambiando colore, il cui rosso e giallo delle foglie è reso ancora più saturo dalla luce autunnale, più moderata dell'accecante luce estiva, e capace di conferire toni più caldi a tutto ciò che illumina. Io e il mio amico ci siamo dati appuntamento in un centro commerciale per pranzo, ma finito di mangiare stare chiusi lì dentro sembrava quasi sacrilego, data la splendida giornata. Così abbiamo passato il resto del pomeriggio sulla terrazza dell'appartamento dove sto vivendo ora. Due settimane fa, su quella terrazza ho passato un'intera domenica a leggere e a prendere il sole, tra gli scoiattoli; abito in pieno centro, eppure non sembra affatto di essere in una metropoli. La mia terrazza mi è sembrata il posto ideale oggi per poter continuare a chiacchierare in pace (non ci vedevamo da due anni) senza perderci il tepore del sole di ottobre, e così ci siamo sistemati lì, io con una tazza di caffè, lui di tè. L'unico tè che gli ho potuto offrire, perché è l'unico che ho e che bevo più volentieri, era il tè verde sfuso. Se posso scegliere, preferisco il tè sfuso, soprattutto se verde, e quindi questo ho in casa. Di solito ne preparo un'intera caraffa e poi la bevo per tutto il pomeriggio, ma se ho poco tempo mi so anche accontentare di una sola tazza. Non sono solita filtrarlo: visto che lo lascio in infusione per parecchio tempo, quando mi decido a berlo le foglie si sono tranquillamente depositate sul fondo e non mi danno alcun fastidio. Ovviamente così è come lo bevo io, e non mi pongo mai il problema che qualcun altro possa essere abituato in un altro modo. Così oggi mi sono presentata dal mio amico con una tazza piena di acqua calda e il sacchetto di tè sfuso, invitandolo a mettersene quanto ne voleva. Ad un certo punto l'illuminazione:
- Vuoi un colino? Io non lo filtro mai, mi piace berlo con le foglie, ma se vuoi...
E lui risponde:
- Figurati! Non lo filtro mai nemmeno io.

Bere il tè con le foglie nella tazza è una cosa che ho visto sempre e solo fare dai polacchi. Io sono cresciuta in Italia, il mio amico in Canada, io e lui non abbiamo mai parlato in polacco e probabilmente non lo faremo mai. Per me lui è canadese, e lui mi ha sempre ritenuta italiana, ma nell'episodio del tè di oggi eravamo entrambi molto più polacchi di quanto non siamo soliti definirci. Sono questi gli episodi che mi piace vivere quando sono all'estero, e che mi piace annotare per non dimenticarli. Il blog l'ho aperto per questo, la mia collezione è di nuovo in aggiornamento.