24.10.11

L'autunno canadese

Ho passato il weekend in giro per parchi, sia in città che fuori, a caccia di foglie.

18.10.11

Espatriati passati e presenti

Su La Repubblica di oggi si parlava di (quelli come) me (a Londra, però):

Nelle università, nei luoghi di lavoro, nei caffè della metropoli sul Tamigi, questa generazione di espatriati tra i venti e i trent'anni, che va e viene per l'Europa con i voli a basso costo della Ryan Air, preferiscono avere un iPad che un'automobile e vive il nomadismo come un'espressione di libertà anziché come un limite, sta costruendo la società del futuro (...)
(Enrico Franceschini, La Repubblica del 17.10.2011, p. 27)

Estrapolo questa frase perché la sento molto mia, anche se mi sono ritrovata anche in diversi altri passaggi di questo articolo, intitolato L'Europa col doppio passaporto. Un articolo (anche) sui nuovi italiani, i figli degli immigrati e i figli delle coppie miste. Io appartengo alla generazione precedente, quando i bambini come me erano una rarità nelle scuole di provincia, e anche a livello nazionale costituivano una percentuale davvero cospicua. Io appartengo alla generazione precedente e ora, tra i venti e i trent'anni, come tanti altri miei coetanei non percepisco nemmeno più i confini interni all'Europa e ogni volta che scendo da un aereo Ryanair mi sento in un certo senso un po' a casa. E condivido pienamente l'idea dell'autore di questo articolo, cioè che il "nomadismo" che caratterizza la mia generazione sia un'espressione di libertà. È starsene relegati al proprio paesino di provincia a rappresentare un limite per me.

Stasera all'Istituto abbiamo proiettato Saturnia, un documentario sugli immigrati italiani in Canada arrivati a bordo dell'omonima nave. Una felice coincidenza aver letto quest'articolo appena poche ore prima. Appartengo a una famiglia che ha vissuto l'emigrazione sia nel ramo paterno che in quello materno, e sono sempre stata affascinata dalle storie di migranti. Io sono un'assidua low cost flyer e come tale ammiro moltissimo le persone che lasciavano tutto per imbarcarsi su una nave che dopo giorni e giorni le avrebbe portate molto lontano. Per la mia generazione le distanze quasi non esistono più. Per chi, come me, addirittura si appisola in aereo, a volte manca perfino il momento in cui si realizza che si sta attraversando una grande distanza, si sta saltando in un'altra cultura, addirittura in un altro fuso orario. Quando volo low cost per l'Europa, mi sveglio all'atterraggio in un Paese più o meno simile al mio e mi affido a quel grandissimo strumento che è la lingua inglese per comunicare. Potrei essere a un capo o a un altro dell'Europa e quasi non accorgermene, questo è il mondo per la mia generazione. E poi sento storie come quelle raccontate in Saturnia e vedo quanto sono cambiate le cose. Come sembrava enorme la distanza tra l'Italia e il Canada sessant'anni fa. Come sembrava straniero un Paese di cui non si conosceva la lingua. Come era estremo il lasciarsi tutto alle spalle, il lasciarsi tutti alle spalle, perché mantenersi in contatto era un'impresa difficilissima. Nell'era di Skype e della fotografia digitale è quasi difficile farsi cogliere dalla nostalgia. Viaggiare, fermarsi per un certo periodo in un altro posto, espatriare, per la mia generazione è quasi facile. Questa consapevolezza mi fa sentire grata per essere una figlia dei miei tempi.

17.10.11

Da che pulpito

Nel più immediato vicinato nel quartiere dove sto abitando ora si trovano soprattutto confraternite universitarie e chiese. Una combinazione interessante. Ma mentre non ho ancora avuto il coraggio di imbucarmi a una festa universitaria, oggi mi sono imbucata a messa nella chiesa protestante che c'è qui all'angolo. In generale, mi piace imbucarmi nelle chiese, anche se ho sempre il vago timore di farmi notare come quella fuori posto quando entro nella chiesa di un credo diverso dal mio. Quando ero in Norvegia sono entrata una domenica a messa in una chiesa luterana, era il giorno nazionale dei Sami e per puro caso avevo beccato la messa bilingue. Mi rincresce molto non averci capito nulla, ma avevo trovato l'esperienza molto interessante. Oggi a mio favore giocavano ben due fattori: nessuna barriera linguistica e lo status speciale della messa di oggi. Ospite d'onore e incaricata al sermone di oggi, infatti, era Margaret Atwood, e per questo l'evento era aperto a tutti.

Sono arrivata con un po' di anticipo per assicurarmi un posto a sedere e sono finita nel banco vicino a una adorabile signora che ha subito iniziato a fare conversazione con me. Un'appassionata di letteratura e di viaggi, che il prossimo anno andrà, guarda un po', a Roma e Firenze. Adoro quando le persone che mi capita di incontrare in modo assolutamente casuale si rivelano compatibili con me! Dopo un po' arriva una sua amica, che si siede di fianco a me, dall'altra parte. Mi presento anche a lei, le spiego cosa ci faccio qui a Toronto, le solite battute di rito fino alla conversazione più spicciola, cioè lei che mi chiede:
- Dopo la messa quali sono i tuoi progetti per il resto della giornata?
E io rispondo:
- Devo assolutamente fare una torta, domani è il compleanno di una collega e voglio preparare una torta da portare in ufficio.
Piccola premessa: prima mi ero intrattenuta a conversare di letteratura e viaggi con l'altra signora, e questa sembrava partecipare poco. Evidentemente non tutte le persone che la vita ci fa incontrare a caso sono compatibili. Ma a questa mia risposta le si illuminano gli occhi:
- Oh! Questo sì che è parlare!
Mi sbagliavo. C'è compatibilità anche con lei.
Ma guardatemi: seduta nel banco di una chiesa protestante a parlare di torte con due sessantenni. Mai mi ero sentita tanto compatibile anche con la desperate housewife Bree!

La messa  è durata tanto, perché era animata da danze e musica. Ho apprezzato moltissimo ogni singolo intervento musicale, soprattutto quelli eseguiti ad hoc per l'occasione, composti dalla Atwood stessa. Ho avuto anche il piacere di ascoltare una versione in musica che il coro ha eseguito della poesia The Tyger di Blake (sentirla in un contesto religioso mi ha fatto assaporare appieno quello che un componimento simile aveva significato per il suo autore. Messa in musica e per coro polifonico non ha fatto che esaltarne la bellezza. Posso dire di essermela oggi goduta nella sua veste migliore, questa poesia). Ma il vero punto di forza della messa, neanche a dirlo, è stato l'intervento della pluripremiata (e anche così è riduttivo) scrittrice. Salita al pulpito perché incaricata lei, quest'anno, a parlare in occasione della Craddock Lecture promossa da questa chiesa. Ha parlato della sua vita, dell'importanza di conoscere la Bibbia quando si studia la letteratura inglese, non si è risparmiata un riferimento alla questione delle biblioteche di Toronto (a rischio tagli per mano del nuovo, poco amato sindaco. La Atwood è diventata la paladina nella guerra ai tagli sulle biblioteche). A fine messa si è anche fermata per rispondere alle domande del pubblico ed è stato durante le domande che una sua frase mi ha colpito più di tutte le altre. Sosteneva quanto sia illimitato il potenziale artistico di un bambino, creatura in grado di imparare tutto al primo colpo, esprimersi con totale libertà nel disegno, nel canto, nella danza, ricettivo al massimo nelle lingue straniere. Fino a quel momento, nella vita, in cui si smette. Alla domanda quando ha deciso che sarebbe diventata un'artista lei ha risposto: "Non è che un giorno ho deciso che sarei diventata un'artista. Semplicemente non ho mai smesso di esserlo". Chapeau. Una lezione da conservare nel cuore.

15.10.11

About a turkey

Ci avevo visto giusto quando avevo previsto che sarei stata poco dietro a questo blog. Devo ammettere che è davvero difficile aggiornarlo quando si lavora full time e spesso anche la sera. Per fortuna questa settimana appena trascorsa è stata abbastanza leggera ed è iniziata di martedì. Perché lunedì 10 qui in Canada era Thanksgiving. Per mia somma gioia ho ricevuto un invito a pranzo e così ho avuto la possibilità di vivere appieno l'esperienza del Giorno del Ringraziamento. Ho potuto assaggiare il tacchino ripieno, una bestiaccia di quasi sette chili che è stata nel forno per quattro ore, guarnito con patate e cranberry sauce. Ero a casa di un collega, sia lui che la moglie sono italiani e, quindi, per quanto il pranzo sia stato tradizionale canadese, a fine pasto è prevalsa l'italianità, che si è tradotta nel caffè della moka e nel tiramisù. Il mio contributo in cambio dell'invito ha riportato il momento del dessert a una dimensione più nordamericana perché ho avuto il buon gusto di presentarmi con un cestino (giuro! In quest'appartamento ne abbiamo diversi!) di cupcake decorati con dei deliziosi fiorellini, e non esagero se dico che questa volta ho davvero superato me stessa:


Uno dei commensali, da bravo pugliese, ha proposto di innaffiare il pan di Spagna dei miei cupcake con il San Marzano Borsci e devo ammettere che ha avuto un'idea davvero felice (e mi ha aperto un mondo).
La giornata del Ringraziamento è stata forse una delle più belle che ho trascorso da quando sono all'Istituto. Mi sono sentita in famiglia, sensazione perfetta per una simile ricorrenza. Per quanto io sia una persona abbastanza indipendente che sa cavarsela molto bene fuori da casa e non è solita avere grossi attacchi di nostalgia (a parte quella per le mie montagne, da cui non sono mai riuscita a guarire), il dividere la tavola con una famiglia mi ha fatto stare bene. Era tutto nelle sensazioni che mi ha dato quell'atmosfera. E il pranzo a base di tacchino è stato un'esperienza da provare!

E così il tacchino del Canadian Thanksgiving va a unirsi alla serie di festività straniere che ho vissuto all'estero, insieme ai fuochi d'artificio del 4 luglio su una spiaggia del New Jersey, alla parata dei bambini su Karl Johans gate il 17 maggio a Oslo, ai bagarini in piazza a Malaga che vendono i biglietti per l'ultima corrida della stagione il 12 ottobre e al profumo di zenzero che pervade le strade olandesi a novembre. Quanto mi sembrano sterili i miei studi sulle culture straniere finché non vedo tutte queste cose con i miei occhi! Le feste tradizionali sono preziosi specchi della cultura di un popolo. Sto aspettando con ansia l'altro grande appuntamento dell'autunno: Halloween. Quello vero, alla faccia della stupidata che cerchiamo di emulare per moda in Italia.

C'è un'altra cosa di cui voglio parlare, ed è una canzone che mi ha invaso il cervello da ieri sera. Si è insinuata nella mia testa, si è appena assopita durante la notte e oggi mi ha accompagnata in loop per tutto il giorno. L'ho sentita per la prima volta nella scena finale del quarto episodio di Revenge, serie TV che ho iniziato a seguire da pochissimo. Affascinata dalla tremenda malinconia di quella voce e di quel piano, ho chiesto a Google chi ne fosse l'autrice e in pochi minuti sono approdata su Youtube al video di questa canzone bellissima:


Agnes Obel, come mi ha insegnato Wikipedia, è una pianista e cantante danese. Per quanto possa sembrare banale quello che sto per dire, la sua musica sembra davvero il canto di una sirena venuta da Nord. Una scoperta affascinante, credo di aver trovato il disco perfetto per accompagnare l'autunno che si trasforma in inverno. C'è una malinconia di fondo nella sua musica, in cui mi piace perdermi e ritrovarmi. È una musica che mi ispira freddo, grigiore, buio. Luci artificiali, colletti dei cappotti tirati su. Alberi spogli, strade bagnate. Persone che vagano in solitudine per le strade di una città. È la musica che mi piace ascoltare quando anch'io vago in solitudine per le strade di una città invernale, con le sue strade bagnate e le giornate sempre più corte. Col colletto del cappotto tirato su. Credo che con Agnes Obel condividerò diversi momenti quest'inverno.

9.10.11

From Canada with... a cup of tea

Mettiamo le cose in chiaro da subito: non garantisco quanta fortuna potrà avere questo blog. L'ho aperto perché mi sembrava la cosa giusta da fare, anche se crescendo (invecchiando, sigh) mi sono sempre più allontanata dall'idea che sarei potuta essere una blogger. Per essere una blogger mancata, tanto vale non esserlo proprio. Il fatto è che, come chi mi conosce un po' bene sa, sono sempre stata attratta dai diari. La vita messa su carta mi affascina. Chi mi conosce un po' bene e da un po' di tempo sa anche che ruolo di spicco hanno avuto i diari al mio esame di maturità. Da brava figlia del digitale quale io mi ritengo, il passaggio dalla carta allo schermo è stato naturale, e per anni ho tenuto un archivio digitale delle mie annotazioni, prima privati e segreti documenti di Word e poi un blog, poi un altro, poi un altro. Da quando il mio tenere un diario è diventata un'esperienza digitale, però, ho perso il senso della continuità. E non mi sono mai trattenuta troppo a lungo su un blog. In questo sono rimasta molto old school: finito un quaderno, se ne riempie un altro. Finito un capitolo della mia vita, nell'era dei blog io tendevo a migrare su un'altra piattaforma. Solo Google mi saprebbe dire se i miei vecchi blog esistono ancora, ma non mi interessa granché scoprirlo. Il penultimo, il predecessore di questo, l'avevo aperto appositamente per il mio erasmus in Norvegia. Non l'ho aggiornato tanto quanto avrei voluto, e ne vado fiera: non sono certo stata sei mesi in un Paese bellissimo per starmene rintanata nella mia cameretta a scrivere un blog! (sorvoliamo sul fatto che io abbia però passato il primo mese rintanata nella mia camera in una condizione di semi-letargo. Ma dormivo: non potevo aggiornare il blog dormendo!) Mi fa piacere tornare a leggerlo - anche se adesso, dopo un master in traduzione editoriale, ci sono cose scritte lì sopra che non posso più vedere (ho dichiarato guerra alle cacofonie e agli avverbi in -mente. Sono cose che capitano) - soprattutto perché quei pochi ma buoni post che mi sono decisa a scrivere sono brillanti annotazioni del mio incontro con le altre culture con cui mi sono trovata a convivere durante i sei mesi norvegesi. Un incontro che, adoro sottolinearlo, è stato la più grande lezione che l'erasmus mi potesse lasciare. Quel blog è stato il depositario di questo genere di annotazioni. Alla vigilia della mia partenza per il Nord America, mi è sembrato doveroso poter disporre di nuovo di uno spazio per raccogliere simili tesori.

Una volta appurato che non sarei mai diventata veramente una blogger, ho lasciato che tutto quello che avevo da esprimere convogliasse nella fotografia. Quello è un ambito in cui posso constatare con enorme orgoglio una vera crescita personale. Siti come flickr e, prima, deviantArt, sono stati per me tanto importanti quanto i miei vecchi quaderni, i miei diari. Lo vedo soprattutto nei ritratti che ho fatto negli ultimi anni: c'è una buona componente di me in quelle foto, anche se le facce, i corpi sono di qualcun altro. Il modello (la modella, sono quasi sempre femmine i miei modelli) ci mette la faccia, ma io sono in grado di riconoscere anche una buona parte di me in quelle foto. Anche quelle sono un diario, a modo loro.

Non tutto può essere documentato con una macchina fotografica, però. Ed è stato in quei casi che un blog, soprattutto quello dell'erasmus, si è rivelato utile: mi ha permesso di fissare, a parole però, dei momenti. Non sarei potuta partire per il Canada senza la sicurezza di avere a disposizione uno spazio in cui immagazzinare questo genere di informazioni. Sono in Canada da più di un mese e non ho ancora avuto la necessità di venire a inaugurare questo blog - questo nuovo capitolo della mia vita, questo nuovo quaderno - ma era tutto predisposto e in attesa, nel caso mi si fosse presentata la necessità di venire a scriverci qualcosa. Un po' come i calzini di lana: li ho messi in valigia, in attesa del freddo. Ora sono in uno scatolone nel mio armadio qui a Toronto, insieme ai maglioni di lana e al resto della biancheria invernale, e aspettano solo il loro momento. Per questo blog, invece, il momento è arrivato adesso.

Non sento la necessità di stare a spiegare chi io sia e cosa ci faccia qui a Toronto. Il blog è online per il gusto di tenerlo accessibile anche al curiosone di passaggio (benvenuto!), ma se il curiosone di passaggio vorrà avere più informazioni su di me non le troverà scritte qui. Si tratta pur sempre di un mio diario, e io non ho certo bisogno di presentarmi a me stessa o ai miei cari (a cui prima o poi giungerà voce di questi post). Poco più sopra, i link ai miei profili fotografici e al blog dell'erasmus non li ho messi per niente: ci penseranno loro a fornire al curiosone di passaggio, ormai diventato un amico se ha letto fino a qui, tutte le informazioni che sta cercando sull'autrice di questo blog.

Perché oggi. Oggi mi sono incontrata con un ex compagno di corso di Oslo (cercavate la continuità?). Ne ho due, qui in Canada (fortunatamente entrambi qui in Ontario, e a due ore di macchina l'uno dall'altro, quindi "vicini"). Con una mi sono già vista diverse volte dal mio arrivo, con l'altro mi sono vista per la prima volta oggi. Toronto è la città più multietnica del pianeta, mi è stato detto, e in generale in Canada nessuno è propriamente del tutto "canadese", a parte i nativi. La storia di chiunque, qui, ad un certo punto nel passato, è una storia di migrazione. Nel caso della storia del mio amico, la migrazione è stata dalla Polonia. La cosa curiosa è che lui è l'unica persona di origini polacche che io conosca con cui ho sempre e solo parlato in inglese. Essendo cresciuto qui in Canada, è l'inglese la sua prima lingua, quella con cui si sente più a suo agio. E in inglese abbiamo sempre comunicato. C'è stato un episodio oggi, però, che ha tradito le origini polacche che abbiamo entrambi, ed è stato questo episodio a farmi sentire il bisogno di inaugurare questo blog. Un episodio che entra di diritto nella mia personalissima collezione di incontri culturali che ho vissuto e assaporato.

Le giornate di ottobre a Toronto sanno regalare delle piacevoli sorprese. Mattinate gelide che lasciano il posto a pomeriggi meravigliosamente soleggiati, in cui il cielo azzurro e terso è lo sfondo perfetto per gli alberi che stanno cambiando colore, il cui rosso e giallo delle foglie è reso ancora più saturo dalla luce autunnale, più moderata dell'accecante luce estiva, e capace di conferire toni più caldi a tutto ciò che illumina. Io e il mio amico ci siamo dati appuntamento in un centro commerciale per pranzo, ma finito di mangiare stare chiusi lì dentro sembrava quasi sacrilego, data la splendida giornata. Così abbiamo passato il resto del pomeriggio sulla terrazza dell'appartamento dove sto vivendo ora. Due settimane fa, su quella terrazza ho passato un'intera domenica a leggere e a prendere il sole, tra gli scoiattoli; abito in pieno centro, eppure non sembra affatto di essere in una metropoli. La mia terrazza mi è sembrata il posto ideale oggi per poter continuare a chiacchierare in pace (non ci vedevamo da due anni) senza perderci il tepore del sole di ottobre, e così ci siamo sistemati lì, io con una tazza di caffè, lui di tè. L'unico tè che gli ho potuto offrire, perché è l'unico che ho e che bevo più volentieri, era il tè verde sfuso. Se posso scegliere, preferisco il tè sfuso, soprattutto se verde, e quindi questo ho in casa. Di solito ne preparo un'intera caraffa e poi la bevo per tutto il pomeriggio, ma se ho poco tempo mi so anche accontentare di una sola tazza. Non sono solita filtrarlo: visto che lo lascio in infusione per parecchio tempo, quando mi decido a berlo le foglie si sono tranquillamente depositate sul fondo e non mi danno alcun fastidio. Ovviamente così è come lo bevo io, e non mi pongo mai il problema che qualcun altro possa essere abituato in un altro modo. Così oggi mi sono presentata dal mio amico con una tazza piena di acqua calda e il sacchetto di tè sfuso, invitandolo a mettersene quanto ne voleva. Ad un certo punto l'illuminazione:
- Vuoi un colino? Io non lo filtro mai, mi piace berlo con le foglie, ma se vuoi...
E lui risponde:
- Figurati! Non lo filtro mai nemmeno io.

Bere il tè con le foglie nella tazza è una cosa che ho visto sempre e solo fare dai polacchi. Io sono cresciuta in Italia, il mio amico in Canada, io e lui non abbiamo mai parlato in polacco e probabilmente non lo faremo mai. Per me lui è canadese, e lui mi ha sempre ritenuta italiana, ma nell'episodio del tè di oggi eravamo entrambi molto più polacchi di quanto non siamo soliti definirci. Sono questi gli episodi che mi piace vivere quando sono all'estero, e che mi piace annotare per non dimenticarli. Il blog l'ho aperto per questo, la mia collezione è di nuovo in aggiornamento.