30.12.11

Natale: il conforto della genetica

Il mio Natale quest'anno è stato un Natale senza regali da fare né da ricevere. Un paio di pacchetti sotto l'albero li ho trovati, ed è stato molto carino perché non me li aspettavo, ma i patti erano non dare e non ricevere. Dato che lo stress legato ai regali da fare è tra le dieci cose che mi fanno piangere di più ogni anno (perché riesco a consumarmi i nervi a livelli esagerati), tutto sommato non mi è dispiaciuto saltare questo passaggio quest'anno e dare tregua alla mia psiche in tal senso. E poi ho fatto una torta, non è che non abbia contribuito affatto. È stato un Natale diverso, un Natale con la cena della vigilia tradizionale polacca e il tacchino con la cranberry sauce il giorno dopo, e tutto ciò mi sembrava terribilmente giusto. È stato un Natale alla cui messa di mezzanotte ho cantato in inglese dal banco, e anche questo mi è sembrato giusto. Un Natale senza il mio paesino che si scambia gli auguri sul sagrato della chiesa godendosi il calore della cioccolata calda e del vin brulé dopo la messa di mezzanotte, e questa cosa mi è mancata. Invece, mi sono ritorvata a fare le ore piccole con i miei parenti di qua bevendo il vino rosso che quasi quattro mesi fa ho portato dall'Italia. Seduti al tavolo della cucina. La cosa più irreale era che mi sembrava tutto assolutamente normale: io sono arrivata dal Canada, non ero tanto lontano, trovarmi lì con loro la notte di Natale mi sembrava una cosa assolutamente logica. Un momento, no, io non arrivo dal Canada, io sono arrivata da più lontano - io arrivo da più lontano - e questi miei parenti li sto vedendo per la seconda volta nella mia vita. Eppure ero lì con loro e la cosa mi sembrava naturale, come se arrivare dal Canada tutta sola e passare la notte di Natale in quella cucina del NJ fosse la cosa più normale del mondo. Senza pandoro. Senza i miei genitori. Un momento, è Natale? Davvero? Siamo già a Natale?

È stato un bel Natale, un Natale con l'eccitazione della mattina del 25 scritta negli occhi dei miei cuginetti, che spettacolo meraviglioso. Un Natale senza neve, ma con la brezza che tira dall'Oceano. Ma è stato un Natale anonimo. Un Natale passivo: il mio ruolo era quella di ospite e mi sento più a mio agio a fare gli onori di casa a Natale. Un Natale senza dubbio diverso.

Non l'ho sentito sbagliato, comunque. Ero in famiglia. La mia famiglia allargata e sparsa per il mondo. La mia famiglia di migranti. C'è chi mi chiede con che impulso io stia vagando tanto alla ricerca del mio posto nel mondo, credo che sia una cosa che noi abbiamo nel sangue. E non solo quello: ci guardavamo le mani, io e la più vecchia dei cugini che ho in America, e ce le abbiamo identiche. L'indice e il medio piegano verso l'anulare, in fuori. Una deviazione leggerissima, ma non abbastanza da non notarla. La stessa curvatura si trova sulle mani di mia nonna. Per quanto lontani e sparsi, siamo una famiglia. La curvatura delle nostre dita lo conferma. In quel dettaglio ho trovato tutto il conforto che mi ha fatto sentire al mio posto in questo Natale senza pandoro, senza vin brulé e soprattutto senza i miei genitori. Ero in famiglia, e questo è tutto quello che bisogna chiedere al Natale.

29.12.11

From A Dusty Bookshelf

Il titolo del post è un omaggio a Tuomas Holopainen, il contenuto è un'antologia di estratti di libri letti nel 2011 che ho ritenuto interessanti e che ho annotato nella mia agendina personale. La data si riferisce al giorno in cui ho annotato il passaggio, che nel 90% dei casi corrisponde al giorno in cui quel passaggio l'ho letto (il restante 10% è dovuto a mancanza di spazio nella pagina giusta). Alcuni passaggi sono dannatamente significativi.  In particolare una frase di Rushdie :)


"Like the swaggering pirates, let's make the most and best and worst of what we have. Give not one-third but everything. All-all-all. Keep nothing back ..."
Jean Rhys, Wide Sargasso Sea, 12 febbraio

"If I read poetry or novels I like then I want to go and live in the country the writer knows."
Nadine Gordimer, Burger's Daughter, 15 febbraio

"And, I grant, such mastery of the multiple gifts of cookery and language is rare indeed; yet I possess it."
Salman Rushdie, Midnight's Children, 7 maggio

"Everything has shape, if you look for it. There is no escape from form."
Salman Rushdie, Midnight's Children, 2 giugno

"L'altrove è uno specchio in negativo. Il viaggiatore riconosce il poco che è suo, scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà."
Italo Calvino, Le Città Invisibili, 20 ottobre

"In un'esistenza come la mia previsioni non se ne potrebbero fare: non so mai cosa mi può capitare nella prossima mezz'ora, non oso immaginarmi una vita tutta fatta di minime alternative ben circoscritte, su cui si possono fare scommesse: o così o così."
Italo Calvino, Se una notte d'inverno un viaggiatore, 21 novembre

"... and I told Sheridan I had to go. Let's meet here every five years to catch up on our lives, he said. Yeah, okay, I said, and waved goodbye."
Miriam Toews, A complicated kindness, 10 dicembre

23.12.11

Trasporti pubblici

La città in cui ho imparato a muovermi con i mezzi pubblici è stata Cracovia. Ero preadolescente o giù di lì ed è stato a Cracovia che ho preso il mio primo tram da sola. Quando viaggi da solo devi avere sempre tutto sotto controllo perché puoi fare affidamento solo su te stesso, anche se il viaggio dura appena poche fermate di tram. È stato in quell'occasione - quella corsa, e le successive - che sono "entrata" nel mondo del trasporto pubblico. Sono cresciuta in un paesino che fino a qualche anno fa vantava ben un semaforo (ora non c'è neanche più quello perché al suo posto hanno costruito una rotonda) e prima di allora non mi era mai capitato di dover imparare a usare i trasporti pubblici. Ma quell'estate mi si aprì un mondo. Quell'estate in cui le mie amiche davano i loro primi baci al vicino di ombrellone, io prendevo confidenza con il sistema dei trasporti pubblici di Cracovia.

Per anni quello fu l'unico con cui ebbi a che fare.

Quando, qualche anno dopo, la vita mi trasformò in una studentessa universitaria pendolare, entrai in contatto con un nuovo sistema di trasporto pubblico, quello di Torino. Non scorderò mai il mio primo giorno di università. (Pioveva, perché ovviamente a Torino deve sempre piovere.) Sapevo che dalla stazione avrei dovuto prendere il tram numero 15, così mi sono avviata verso la pensilina. Una rapida occhiata alla lista delle fermate successive mi conferma che sono nella direzione giusta e nel giro di pochi minuti il tram arriva e io salgo. Per i primi minuti della corsa non mi preoccupo particolarmente di dove sto andando perché non conosco granché la città, e non mi aspetto di riconoscere le vie. Dopo una decina di minuti, però, inizio a insospettirmi: non avrei dovuto metterci così tanto, eppure la mia fermata non è ancora arrivata. Chiedo a una persona di fianco a me se l'abbiamo già passata, la informo che devo andare all'università e non sono sicura di saper riconoscere la fermata giusta. La persona interpellata controbatte che l'università è dall'altra parte della città: devo scendere e prendere il tram che va nella direzione opposta. Possibile? Eppure avevo controllato le fermate successive.

Non ammetterò mai di aver sbagliato, perché io quel giorno non ho sbagliato. Se fossi stata a Cracovia, sarei andata nella direzione giusta. Prima di salire, infatti, avevo scorso la lista delle fermate dall'alto verso il basso, come avrei fatto a Cracovia. Nessuno mi aveva avvertito, però, che a Torino le fermate dei mezzi si leggono dal basso verso l'alto. Nella mia ingenuità non avevo preso in considerazione che il sistema torinese potesse differire da quello di Cracovia, e la mia poca esperienza coi mezzi pubblici di un'altra città non ha giocato a mio favore quando ho letto le fermate nel senso opposto.

Questa grande lezione di vita mi ha insegnato a fare sempre molta attenzione alle insidie disseminate nel sistema dei trasporti pubblici di un'altra città. E sono diventata molto sospettosa. Quando, nel 2009, mi sono trasferita a Oslo, l'ispezione della pensilina alla mia fermata della metropolitana e un'attenta lettura delle informazioni affisse è stata una delle prime cose che ho fatto. Mi è stata utile: ho subito imparato che la domenica non è giorno da prendere i mezzi pubblici nella capitale norvegese.

E poi a settembre di quest'anno mi sono trasferita a Toronto e ho riposto nel sistema dei trasporti di una metropoli nordamericana la mia più cieca fiducia. Grosso errore. Mi ci è voluta una persona del posto per spiegarmi esattamente in cosa consiste la politica dei transfer, ovvero se fai una corsa semplice puoi non prendere nessun biglietto cartaceo, ma se hai bisogno di proseguire la corsa cambiando mezzo allora devi munirti di transfer, ovvero questo fogliettino, per proseguire senza dover pagare una volta salito sul secondo mezzo. A complicare le cose c'è il fatto che il transfer va preso alla stazione o fermata di partenza e non a quella di cambio, quindi non bisogna dimenticarlo quando si inizia la prima corsa. Una follia. Ma non è tutto. Due settimane dopo il mio arrivo a Toronto ero d'accordo con un'amica a una certa fermata della metropolitana alle 9 del mattino. Di domenica. L'idea che i mezzi a Toronto la domenica potessero essere sfigati come a Oslo non mi ha neanche accarezzato la mente: una simile follia in una delle città più grandi del Nord America? Suvvia. Ecco che quindi, quando alle 8 e mezza di una domenica mattina l'ingresso della metropolitana rifiuta i miei gettoni, il mio stato d'animo è di assoluta incredulità. Riprovo: la macchinetta avrà la luna storta, ma ecco che il gettone viene di nuovo rigurgitato. Dopo una terza volta, oltre al gettone che torna indietro, si materializza un guardiano della metropolitana:
- Signorina, la metropolitana è chiusa. Ritorni alle 9.
- No, seriamente? Io devo essere all'altro capo della città tra mezz'ora!
- Allora esca in strada e prenda il night bus.
Night bus?? Alle 8 e mezza del mattino me lo chiamano night bus?
E fu così che all'appuntamento con la mia amica arrivai con un vergognosissimo ritardo, perché ovviamente il night bus ferma ogni duecento metri e ci mette il triplo del tempo rispetto alla metropolitana. A saperlo, sarei uscita di casa alle 7 e mezza per essere da lei alle 9. Ma ero a Toronto, dannazione, non avevo minimamente preso in considerazione che la metropolitana potesse essere chiusa prima delle 9 di domenica mattina! Mea culpa, non ho controllato gli orari come avrei dovuto fare. Ma è Toronto, non Oslo, accidenti!

Un paio di giorni fa ero a New York per incontrarmi con una persona. Abbiamo fissato un secondo appuntamento per un giorno di gennaio alle 7 del mattino. Non è una domenica, ma ormai io non mi fido più di nessuno:
- Mi ci vuole un po' per arrivare sulla 57th per le 7, sarà già aperta la metro?
- La metropolitana di New York è aperta 24 ore!
Musica per le mie orecchie. Dio benedica New York e la sua metropolitana che non chiude mai!

13.12.11

Ulteriori informazioni

Ciao, mi chiamo Eva e sono una fotografa.
Se fossi canadese, probabilmente mi presenterei così alla gente. Ma non sono canadese e di solito dopo il nome mi fermo. Di solito il mio nome è la prima informazione che fornisco e la persona a cui mi sto presentando se la deve far bastare almeno finché non si comincia una conversazione che potrebbe rendere utile o interessante il mio rivelare ulteriori informazioni su di me. In quei casi posso calare un'altra carta.
Ciao, mi chiamo Eva e sono una fotografa/ho una laurea in lingue/adoro la Scandinavia. Eccetera.
Forse la causa della mia reticenza a fornire troppe informazioni in un colpo solo è dovuta al mio sentirmi perennemente in bilico tra l'eccessiva modestia e il terrore del passo falso. Perché è sempre meglio dire una cosa in meno che dirne una fuori luogo. Questo perché so di essere piuttosto pessima a riparare una conversazione che ha preso una piega sbagliata, e quindi le informazioni accessorie le faccio arrivare quando ho capito in che acque sto navigando.
Perché mi comporto così? La mia vita "normale" ruota intorno ad alcuni contesti piuttosto fissi, ovvero: 1. il mio ambiente provinciale in cui tutti sanno chi sono, 2. il mio solito giro di amici, gente che sa molto bene chi sono e 3. la mia vita universitaria, in cui un profilo di base ci accomuna tutti. Sono davvero rare le occasioni in cui mi devo presentare a una persona completamente nuova e, quando mi capita di conoscere qualcuno, molto spesso c'è già qualche elemento che ha partecipato a definirmi o perché questa persona è amica di un amico, o perché è legata al mio ambiente universitario, o perché ci si trova in coda allo stesso concerto, e si finisce sempre per avere un contesto definito, un punto di partenza. "Ciao, mi chiamo Eva": che studio Lingue lo sai perché ci siamo incontrati in facoltà; che mi piacciono i Muse lo sai perché se no non sarei qui davanti ai cancelli come te; eccetera. Chiaro perché molto spesso il solo nome sia un'informazione più che sufficiente per cominciare, no?
Poi ci sono i casi in cui mi trovo decontestualizzata, tipo ora, che sono a Toronto. Qui nessuno sa niente di me. E ogni volta che rivelo solo il mio nome so che sto perdendo un'occasione per farmi conoscere davvero. Non succede sempre: dipende dai contesti. Faccio qualche esempio.

Ciao, mi chiamo Eva, sono laureata in Lingue e ho una passione per la Scandinavia.
Quando mi è stato presentato il console generale di Danimarca a Toronto non sono proprio riuscita a fargli bastare il mio nome. Ci ha presentati la direttrice dell'Istituto, quindi non sono stata nemmeno io a dire il mio nome. Stretta di mano, "Piacere", "Piacere mio". Alcuni secondi di silenzio e poi io parto all'attacco: "Lo sa che io ho scritto la mia tesi triennale su un'autrice danese?". (Segue lunga chiacchierata in cui gli spiego perché credo che Copenaghen sia la città più bella d'Europa e gli racconto che ho studiato a Oslo e che...)
Ecco, qui il rischio di dire una cosa fuori luogo era praticamente inesistente. E poi stiamo parlando della mia tesi e dei miei giri per la Scandinavia e io potrei parlarne per ore senza esaurire l'argomento. Facile.

Ciao, mi chiamo Eva e decoro torte.
Durante questo mio incredibile soggiorno canadese mi è capitata l'opportunità di fare da interprete a due cuochi italiani in visita a Toronto. Li ho seguiti come un'ombra per quattro giorni durante i quali hanno preparato una cena nel ristorante di una scuola di cucina, quindi la fase della preparazione dei cibi è stata anche di didattica agli allievi della scuola che hanno collaborato con loro. Il mio compito era tradurre. Anche in questo caso sono stata presentata da una terza persona, l'organizzatrice del progetto che li ha portati a Toronto, che mi ha presentata come la loro interprete. Destino ha voluto che la loro interprete fosse anche un'appassionata di cucina, e in particolare di pasticceria. Ora, io me ne sarei dovuta stare in un angolino a non interferire nel loro lavoro, intervenendo solo quando si fosse resa necessaria la mia mediazione linguistica. Ovviamente, mettermi per dodici ore consecutive in una cucina e pretendere che io me ne stia in un angolino è inimmaginabile e infatti, appena se n'è presentata l'occasione, ho voluto collaborare un po' anch'io. D'altronde, quando erano tutti impegnati a tagliare chili di carote o a farcire centinaia di ravioli non c'era bisogno di una traduttrice. Così, quando uno dei due chef si è messo a preparare le meringhe, gli ho chiesto se potevo finire io il lavoro. Avevo accennato ai due cuochi la mia passione per la pasticceria, e in particolare il bellissimo rapporto che ho con le sacche da pasticciere, ma questa informazione non dev'essere stata sufficiente per guadagnarmi la loro fiducia, perché mi è stata concessa la sacca solo per "fare le ultime". Eppure io avevo parlato sul serio quando avevo detto che questo è il mio hobby, e quando hanno visto come ho impugnato la sacca correttamente e ne ho fatto uscire una serie di meringhe tutte perfettamente identiche a quelle che aveva appena finito di fare uno di loro due, il commento è stato: "Ah, si vede che ci sai fare". Appunto.
Io l'avevo detto che con la sacca da pasticciere ci so fare. Ma il fatto che io fossi lì perchè sono un'interprete non aveva dato abbastanza credibilità alle mie parole. Eppure non si tratta di due informazioni incompatibili.

Ciao, mi chiamo Eva e sono una fotografa.
Ieri ho avuto la possibilità di infiltrarmi a un servizio fotografico realizzato per un magazine per cui lavora una mia nuova amica conosciuta qui a Toronto, e per cui ho anche collaborato con un paio di articoli. Sono andata ad assistere semplicemente perché morivo dalla curiosità di vedere un photoshoot da "esterna". Perché nelle vesti di fotografa ne ho già visto più di uno. Eppure quando mi è stato presentato il fotografo non ho avuto il coraggio di dirgli: "Sai, anch'io faccio foto". Perché nonostante avessi riconosciuto il suo modello di macchina vedendolo da dietro, mi sento sempre un po' troppo inadeguata per definirmi una vera fotografa. Sbaglio, forse. Ma se non ho il portfolio alla mano, o se non vengo vista all'opera, per qualche motivo su questo punto fatico a esprimere una certa credibilità. Perché tutti fanno foto. Ehi, ma io mi prendo piuttosto sul serio. C'è gente che ha pagato per avere delle mie foto! E non avrò un'attrezzatura da urlo, ma quando la Canon fa uscire qualcosa di nuovo io corro a leggere le recensioni in rete. E così, quando conosco un fotografo, quasi sempre mi limito a dirgli solo il mio nome. Poi però gli chiedo se posso dare un'occhiata alle foto che ha appena fatto, e quando mi dice di sì e prendo in mano la sua macchina, la accendo e mi metto a sfogliare le foto, il suo "Bisogna accenderla" rimane in sospeso perché vede che so esattamente dove andare a mettere le mani. "Ho una Canon anch'io".
Ciao, mi chiamo Eva e sono una fotografa.
Davvero.